Ragosta, dopo tre anni raffica di archiviazioni

Ragosta, dopo tre anni raffica di archiviazioni
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 17 Aprile 2015, 23:28 - Ultimo agg. 23:58
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Non basta una scatola di biscotti per parlare di corruzione, specie se, una volta sequestrata la scatola, all’interno non spuntano mazzette di soldi, ma biscotti, nient’altro che biscotti. Non basta parlare di corruzione in atti giudiziari se manca una precisa individuazione dei provvedimenti che, di volta in volta, sarebbero stati controllati e manipolati o se, al di là delle intercettazioni, non ci sono fatti riscontrati.



Eccole le conclusioni della Procura di Roma, che ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di 38 imputati, tra manager di azienda, avvocati, commercialisti e docenti universitari, al termine di uno dei filoni di inchiesta condotti a Napoli sul gruppo Ragosta. Ricordate le indagini sulla commissione tributaria?



Un terremoto datato marzo 2012, con arresti, perquisizioni e indagati eccellenti, che fece calare pesanti ombre sulla gestione dei contenziosi tributari che si tengono al Centro direzionale. Tre anni dopo, lo scenario è cambiato. È il gip di Roma ad accogliere il ragionamento dei pm della Capitale e ad archiviare in blocco oltre cinquanta imputati, stralciando solo tre posizioni per un solo capo di imputazione.



Una mannaia a tutti gli effetti, giunta al termine delle conclusioni del pm romano Giuseppe Deodato che non esita a sottoscrivere pesanti stroncature sul lavoro svolto dai pm del Centro direzionale. In sintesi, il pm di piazzale Clodio parla di «confuse trasmissioni di atti della Procura di Napoli», anche solo nella fase della iscrizione degli indagati nel registro generale.



Doverosa una premessa: Roma si occupa dell’inchiesta sulla commissione tributaria, in seguito al trasferimento degli atti determinato dalla presenza tra gli indagati di un ex giudice di pace di Frattamaggiore (presenza che ha imposto il trasferimento degli atti a Roma, per competenza funzionale).



Ed è qui, a Roma, che le conclusioni investigative vengono completamente ribaltate. Insufficienza dei gravi indizi di colpevolezza, «irrilevanza penale di molti singoli fatti contestati». Eppure, secondo la Procura di Napoli (al lavoro c’erano i pm Curcio, Milita e Teresi), per anni ci sarebbero stati accordi tra componenti delle varie commissioni tributarie e avvocati di parte, per condizionare gli esiti dei ricorsi.



In alcuni casi - scrissero i pm napoletani - era stato favorito il gruppo di Fedele Ragosta, capace di evitare pesanti conseguenze sul piano tributario proprio grazie alla «corruzione sistematica» di giudici ed esponenti delle commissioni.



Una lettura non accolta dai magistrati di Roma, sia in sede di Riesame (che revocò arresti e obblighi di dimora), sia in sede di archiviazione. Ma ecco cosa scrive il pm di piazzale Clodio, focalizzando l’attenzione sul principale indagato, l’imprendiotore Fedele Ragosta: «Vanno resi manifesti la vaghezza descrittiva dell’ipotizzata corruzione in atti giudiziari e alcuni profili di lampante contraddittorietà».



In che senso? Stando alla valutazione dei pm romani, negli atti d’accusa prodotti a Napoli manca «la totale individuazione dei ricorsi in relazione ai quali sarebbe stata posta in essere la condotta illecita corruttiva». Archiviazione piena dunque per Fedele Ragosta (difeso dai penalisti Massimo Krogh e Mario Papa), per la moglie Annamaria Iovino (difesa dai penalisti Marco Campora e Lucio Majorano), per il manager Ersilio Giannino (difeso dagli avvocati Felice Carbone e Ester Siracusa).



Ma non è tutto: archiviazione per altre decine di professionisti, tra cui il commercialista Vincenzo Esposito e giudice in commissione tributaria (all’epoca impegnato presso la cattedra di diritto Tributario della Federico II), i giudici Mario Serpone, Roberto Trivellini e Francesco Sapignoli, finanche per l’impiegato della commissione tributaria Gaetano Borrelli «addetto al piani delle uduenze».



Ed è al termine del proprio ragionamento, che i pm romani prendono in considerazione anche una intercettazione che, in una prima fase, ebbe una certa risonanza, a proposito del tentativo di corrompere i giudici con «scatole di biscotti».



Cosa c’era dentro? Soldi? Nient’affatto, scrivono oggi a Roma: «È arduo immaginare che si possa attribuire - come pure hanno fatto i pm di Napoli - una capacità di seduzione in senso di corruzione a una scatola di biscotti o a una tazzina di caffé; l’indagato Fedele Ragosta ha chiarito che la distribuzione di biscotti Lazzaroni obbediva a una strategia di marketing, dopo l’acquisto del marchio.
Diverso sarebbe se - come ipotizzato a Napoli - fossero stati occultati denaro o beni con forza di seduzione. Ma nulla in tal senso hanno disvelato le indagini».
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