Vittorio Del Tufo è convinto che per cogliere il senso profondo della realtà occorra servirsi dello spettro del mito. Quello che per un cronista rischia di apparire una sorta di paradosso, sulla sua pagina si delinea nei termini di una pratica dai toni ermeneutici: pare aver acquisito al lezione di René Girard quando, ne La violenza e il sacro, spiega che «se c’è un’origine reale, se i miti, a loro modo, non cessano di rammentarsela, se i rituali, a loro modo, non cessano di commemorarla, deve trattarsi di un evento che ha fatto sugli uomini un’impressione non incancellabile, dato che finiscono per dimenticarla, ma nondimeno fortissima». Così, soltanto ripercorrendo la trama della leggenda, seguendo l’intrigo di segni che contiene e sbrogliando l’apparato simbolico che rimanda, diventa possibile giungere a una forma di conoscenza della storia. Il lavoro di ricerca e di scrittura che Del Tufo ha condotto con il trittico Napoli magica, Torino magica e Parigi magica ne costituiscono la testimonianza e l’appuntamento settimanale fissato su «Il Mattino» – dove è caporedattore centrale – con la rubrica «L’Uovo di Virgilio» condotta insieme al fotografo Sergio Siano si consegna come il paradigma di un impegno da archeologo del sapere immerso nelle mille narrazioni che si diramano dal ventre tormentato della città. Soltanto attraverso gli occhiali del mito si può – con le parole di Anna Maria Ortese – «mitigare la selvaggia durezza» del quotidiano e cogliere, nella profondità dell’aura magica, «la natura ambigua delle cose».
Questo – «La natura ambigua delle cose» - è il titolo di uno cinque capitoli in cui Vittorio del Tufo articola Il caso Virgilio (Colonnese, pagg. 246, euro 19), il suo nuovo romanzo che già dal titolo programmaticamente si muove in un riuscito equilibrio tra il romanzo d’azione e l’indagine storica. «Un racconto di fantasia che però va letto in controluce, perché dietro la finzione, come spesso accade, potrebbero nascondersi delle verità sorprendenti», raccomanda nel post scriptum.
L’azione parte da una cena che si tiene nella villa luccicante di un’eleganza aristocratica ma segnata dalla malinconia di uno splendore sgranato.
Gli ultimi giorni dell’estate 1973 si pongono da cardine di una narrazione che intreccia i piani cronologici: dalla Grecia del 19 avanti Cristo alla Monaco del 1919, dal 1140 al 1920, dal 1370 fino alla data del 9 marzo 2020 che, nell’aprire l’emergenza pandemica da Covid-19 disegna una parabola con l’altra del colera. Vittorio Del Tufo sceglie un punto di vista assolutamente simbolico, la collina di Posillipo, che con il suo carico di passato e presente costituisce il nucleo fondante nella porosità tufacea della geografia identitaria della città. Si affida a Virgilio, al Maestro, al Mago che nella dimora di Pausilypon, «la sua seconda pelle, la sua ossessione» provava a riposare dagli affanni e dare tregua al dolore. Rita Persico si ritrova a misurarsi con interrogativi inquietanti e tormentati, con il buco nero della morte di Virgilio, del suo viaggio nell’Ikaria, dei segreti celati nella sua tomba, della caccia alle sue spoglie anche da parte di Adolf Hitler, capo della società esoterica Thule che voleva imporre l’era nuova del Puer, della vecchia e nuova Progenia napoletana, di delitti e colpi di scena, di mercanti d’arte e giovani Colapesce, dell’enigmatica Grotta del Tuono e delle iscrizioni a Villa Heigelin, dei criptici codici massonici e dell’immaginario nazista popolato da divinità, giganti, draghi e super uomini: le sequenze si susseguono in un ritmo incalzante, il progressivo svelamento di personaggi e luoghi verso conduce a un esito comunque aperto, nel canto «Tu sei il Mago e il tuo nome è Oracolo, sei il Taumaturgo e il Guerriero, hai seguito le orme di Chironte e Sirone» già incontrato al principio del racconto.
Il caso Virgilio si presenta nelle forme di un giallo appassionante, ma più che i colpevoli attori di un teatro del male porta a far emergere l’autentico protagonista che Del Tufo propone: il Tempo, la sua ciclicità, il significato del suo declinarsi, i segreti che conserva nelle pieghe, l’ansia che impone per vincerne l’andamento implacabile a cui gli uomini provano da sempre a opporsi prolungando la vita. Non riuscendovi, se non ricorrendo alla magia.